Rotten Hamlet. Una storia a brandelli

In scena al Teatro Calcara di Valsamoggia il 3, 4 e 5 novembre

Che voi siate degli appassionati di teatro, di letteratura inglese, di cinema oppure nessuno di questi, quasi sicuramente, almeno una volta nella vita, avrete sentito parlare di Amleto e della sua tragica storia. Il teschio di Yorick, il fantasma del padre, il “marcio in Danimarca”, l’eterno dubbio - o dilemma - di “essere o non essere”, sono quegli elementi che, seppur presi singolarmente e collocati perfino fuori contesto, rimandano irrimediabilmente alla figura del principe disegnato dalla penna e dalle parole di Saxo Grammaticus, prima, e sublimato in epoca elisabettiana da William Shakespeare.

Talmente tanti e così pregnanti sono i riferimenti e le peculiarità di Amleto che, nei secoli, si è radicato nella cultura mondiale condivisa fino a diventare una figura archetipica che cessa di incarnare vizi, virtù, fatti e misfatti che appartenevano a sé stesso e al suo mondo, e comincia ad essere uno specchio per l’umanità intera. Risulta abbastanza chiaro che mettere in scena una storia così nota al pubblico pone il regista e la compagnia tutta sotto la luce dei riflettori e di fronte ad un grande interrogativo: “cosa si saranno mai inventati?”. Una domanda lecita, vista la caratura del testo e, nel caso di “Rotten Hamlet. Una storia a brandelli”, delle due compagnie - Teatro delle Temperie e Teatro Strappato - che hanno collaborato alla messa in scena. 

Un Amleto sopravvissuto alla sua stessa tragedia e che esce dal grigiore e dall’atmosfera lugubre del Castello di Elsinore per portare egli stesso la sua storia al mondo e raccontare di quali nefandezze l’essere umano può rendersi artefice. Amleto - uno strepitoso Andrea Lupo - racconta tutti i fatti accaduti senza ricorrere ad una figura narrante e lo fa nella maniera più semplice possibile: aprendosi al pubblico. Nel momento in cui il trono, posto al centro della scena, viene scoperto ed il telo bianco ed impolverato, che era adagiato su di esso, viene tolto, Amleto sembra quasi voglia dirci “prego, accomodatevi e statemi a sentire”. Da questo momento, si viene proiettati in un mondo che differisce da qualunque piano della realtà, abitato da entità fantasmatiche e voci infestanti che compongono come un mosaico i ricordi di Amleto, che usa, per dirigere questa sinfonia, un telecomando per far andare avanti le immagini nella sua testa o per metterle in pausa. Insieme al pubblico, il principe ripercorre per l’ennesima volta nella sua vita tutti gli avvenimenti che lo hanno portato ad essere dove oggi si trova, permettendo anche agli altri di comprendere le efferatezze e le infamità che ha dovuto subire, chiedendo ai presenti in sala di immedesimarsi nella situazione e di immaginare che cosa avrebbe potuto fare. Questo è il punto di collegamento tra l’opera di partenza e questo spettacolo: essendo Amleto sopravvissuto alla spada avvelenata di Laerte, è portatore degli avvenimenti che, negli anni, lo hanno logorato ed è costretto a riviverli in eterno attraverso il racconto, è qui che diventa “Rotten”, cioè “marcio”, “putrido”, “corrotto”, soggetto alla pena che il tempo biologico gli ha riservato, da cui solo la morte lo avrebbe salvato. Due elementi fungono da attivatori della memoria: una corona, maneggiata con estrema cura dal principe e il già citato trono, che diventa il perno centrale attorno al quale (ma anche dietro e sopra di esso) si svolge l’intera azione scenica dei personaggi della tragedia. Personaggi grotteschi, deformati dalla memoria di Amleto - interpretati da Vene Vieitez e Cecilia Scrittore con estrema bravura e perizia tecnica - che si muovono in un sistema di luci e musiche: il re Claudio, la regina Gertrude, il consigliere Polonio e la giovane Ofelia, con il supporto delle maschere - opere d’arte originali create da Teatro Strappato - sono nient’altro che fantocci caratterizzati non unicamente ai fini della trama, ma anche e, aggiungerei, soprattutto come figurazioni di qualcosa di più grande. L’incapacità e la boria dei potenti, la violenza dell’amore, la spietatezza dell’essere umano accecato dalla perversione, dai vizi e dalla brama di potere, tanto da considerare le vite umane meri imprevisti di un gioco da tavolo.

Uno spettacolo con un equilibrio tendente al perfetto, brillante, originale, ragionato, profondo, divertente, toccante e acuto, in una parola: intelligente. Una regia, assistita da Michela Lo Preiato, che ha saputo bene come sfruttare le potenzialità di un testo solido (non che sia una novità) come quello de “La tragedia di Amleto” il quale, seppur modificato rispetto all’originale, non soffre in alcun modo la ristrutturazione fatta ad hoc da Teatro delle Temperie e da Teatro Strappato, che li ha portati alla creazione di un’opera di fattura magistrale e di un’essenzialità eloquente.

 

Daniele Facciolli

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Daniele Facciolli

Operatore Teatrale, Atelierista e Formatore. Inizia ad appassionarsi al teatro sin da piccolo crescendo in una famiglia di teatranti. Laureato al DAMS e poi alla Magistrale di Discipline della Musica e del Teatro, collabora con BolognaTeatro dal 2018.

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